L’idea di vivere per sempre prima o poi sfiora chiunque. Che nasca in reazione alla consapevolezza di dover morire o a partire dalla letteratura e dalla cinematografia ad essa dedicata, a chi non capita di ragionare sulla possibilità di vivere molto più a lungo? Forse perché tutti, prima o poi, sappiamo che ci troveremo dinanzi alla sua conclusione per come la conosciamo, ovvero la morte. L’unica forma di uguaglianza che neanche denaro, potere e conoscenza sembrano poter annullare. O almeno, così è stato fino ad oggi.
Negli ultimi decenni, infatti, gli sviluppi della ricerca anti-aging hanno permesso di guardare con sempre maggior serenità al fenomeno della morte. I progressi dell’ingegneria genetica e delle biotecnologie sono stati superiori anche alle attese, al punto da far parlare seriamente di immortalità anche sul piano scientifico, trasformando di fatto quella che è sempre stata un’utopia nella nuova sfida del futuro.
L’obiettivo delle ricerche anti-aging è comprendere a fondo il meccanismo di invecchiamento del corpo umano, al fine di controllarlo. L’auspicio dei più cauti e pragmatici è quello di trovare, già nel giro di pochi decenni, il modo per rallentare il processo di invecchiamento, permettendo così agli uomini di vivere fino ai 140-150 anni. I più visionari e ambiziosi, invece, si spingono oltre, e puntano direttamente ad arrestare il processo, se non addirittura invertirlo.
Ad impegnarsi e investire attivamente in questo tipo di studi sono soprattutto le case farmaceutiche, con la svizzera Novartis in testa. Accanto a loro, naturalmente, troviamo i colossi della Silicon Valley e i multimiliardari del pianeta, che hanno dato vita e/o finanziato start-up e aziende specializzate nella ricerca anti-aging. Tra queste, spiccano Calico Labs - creata nel 2013 dal co-fondatore di Google Larry Page e artefice di promettenti studi nel campo della riprogrammazione cellulare - e Altos Labs, nata a inizio 2022 anche grazie al finanziamento di Jeff Bezos.
Allo stato attuale non disponiamo di tecnologie tali da garantire davvero la vita eterna. Tuttavia, conoscenze e terapie utili a prolungare la nostra esistenza non mancano. Ed è da esse che, con grande ottimismo, prende le mosse la ricerca dell’immortalità.
Tra queste, una delle più promettenti è legata all’utilizzo delle cellule staminali riprogrammate (IPS), scoperte nel 2012 da Shinya Yamanaka e John B. Gurdon. In estrema sintesi, i due studiosi hanno capito che, aggiungendo alle cellule alcune proteine – chiamate “fattori Yamanaka” –, è possibile farle regredire al loro stadio embrionale. Le sperimentazioni finora eseguite sono state condotte esclusivamente su topi, ma i risultati ottenuti sono sorprendenti: dopo il trattamento, infatti, parte dei loro tessuti sono effettivamente diventati più giovani. Da alcuni studi successivi sembrerebbe però che, a seconda del livello di riprogrammazione “impostato”, i topi tendano a sviluppare alcune forme di tumori embrionali. La strada da fare è dunque ancora lunga, ma le premesse sono tali da rendere la possibilità di vivere stabilmente oltre i cento anni quantomeno plausibile.
Gli scienziati John B. Gurdon (a sinistra) e Shinya Yamanaka (a destra)
Un’altra possibile via per l’immortalità è rappresentata dalla manutenzione costante del corpo umano. Questa strategia, su cui investe ad esempio la SENS Reasearch Foundation – un’organizzazione no-profit californiana –, concepisce e tratta il corpo umano al pari di una macchina. In quest’ottica, l’invecchiamento umano diventa di fatto una forma di usura del corpo, aggirabile con un suo uso parsimonioso e un’attenta manutenzione delle sue componenti. Per quanto cinica, questa prospettiva ha un fondamento biologico, e trova un ottimo alleato nella tecnologia delle stampanti 3D, utilizzabili per creare organi e tessuti in grado di fungere da “pezzi di ricambio” per il corpo umano. Tuttavia, sempre che questo tipo di trapianti si riveli effettivamente sicuro ed efficace – per quanto promettenti, gli studi sono ancora troppo pochi per poterlo affermare con sicurezza –, bisognerà anche capire se, e nel caso quanto, tale sostituzione possa essere ripetuta nel tempo.
Per quanto pionieristiche e ancora lontane dall’essere certe, le ipotesi fin qui descritte hanno comunque un fondamento scientifico. Come spesso accade, però, accanto ad esse sono nate anche alcune pratiche di tipo pseduosceintifico o fantascientifico. Una delle più note è quella della crioconservazione umana, ovvero l’ibernazione del corpo nei minuti immediatamente successivi alla morte. Si tratta di una pratica costosa (circa 36mila dollari) e disponibile solo in alcuni Paesi extra europei, ma a cui hanno già fatto ricorso centinaia di persone in tutto il mondo. A spingere queste persone a sottoporsi al trattamento è la speranza, ad oggi infondata, che in futuro troveremo il modo di resuscitare i morti.
Altrettanto nota e utopistica è l’idea portata avanti dalla Netcome, una start up fondata nel 2016 da alcuni ricercatori del MIT specializzati nello studio dell'intelligenza artificiale. Il progetto consiste nel vetrificare il cervello umano per preservare l’insieme delle sue connessioni neurali – detto connettoma – e trasferirlo nel Cloud. In pratica, attraverso la vetrificazione, ovvero una forma avanzata di crioconservazione, la Netcome vorrebbe eseguire una sorta di backup del nostro cervello. L’obbiettivo sarebbe ricostruire a posteriori i ricordi e i pensieri delle persone, in modo da poterli conservare e consultare in eterno.
Sebbene affascinante, ad oggi questo progetto non sembra avere reali possibilità di decollare. Oltre a presupporre una conoscenza del connettoma di gran lunga superiore a quella attuale, questa pratica trova infatti un grosso limite nello stesso processo di vetrificazione. Quest’ultima, infatti, per mantenere intatto il connettoma, dovrebbe essere eseguita su un cervello ancora in vita. E se di persone disposte a farsi ibernare post mortem tutto sommato esistono, trovare qualcuno disposto a morire in cambio di un’ipotetica immortalità virtuale è sostanzialmente impossibile.
Probabilmente non esiste una risposta giusta. Anche perché molto dipende dalle convinzioni di ciascuno di noi. Certo è che vivere per sempre porrebbe molti problemi, forse anche superiori a quelli causati dalla morte. I problemi si pongono già sul piano teorico-esistenziale: d’altronde, siamo davvero sicuri che avere davanti a noi un tempo illimitato sarebbe un bene? Istintivamente risponderemmo di sì. Ma la quotidianità ci insegna tutt'altro. A ben vedere infatti, anche senza essere dei procrastinatori seriali, è solo quando il tempo scarseggia che iniziamo ad agire. Se già consapevoli di avere un tempo limitato tendiamo comunque a rimandare all’ultimo lo studio o il lavoro, al prossimo mese l’iscrizione in palestra e alla prossima domenica la visita alla nonna, per quale motivo, essendo certi di avere sempre un domani, non dovremmo rimandare continuamente ogni cosa? Paradossalmente, avere il tempo di fare ogni cosa potrebbe indurci a non fare più nulla.
Ma anche se ci limitassimo a prolungare la nostra esistenza a 140-150 anni – che attualmente sembra l’unica strada davvero percorribile – i problemi non mancherebbero. Innanzitutto, che qualità della vita potremmo avere? Già in una società come la nostra, in cui le condizioni igienico-sanitarie e il livello di benessere sono elevati, dopo i 60 anni ci ritroviamo a fare i conti con i famosi “segni dell’età”. Pur con tutti i progressi della medicina, il miglior scenario a cui aspirare ci vedrebbe sì vivere 150 anni, almeno la metà dei quali passati però con acciacchi e difficoltà che causerebbero più sofferenze che benefici. Siamo sicuri che ne varrebbe la pena?
Per non parlare poi di tutti i problemi che nascerebbero a livello sociale: già oggi “chi ha fatto la guerra”, “boomer” e “zoomer” dialogano e convivono a fatica; come possiamo anche solo pensare di riuscire a tenere insieme una società fatta di persone nate e cresciute letteralmente in secoli diversi? O una società in cui a godere delle prestazione di welfare sarebbero anziani che rimarrebbero tali per quasi cento anni?
Insomma, la prospettiva di vivere per sempre ha senz’altro un fascino innegabile, ma forse sarebbe il caso di lasciarla alla fantascienza. Piuttosto che sforzarci di vivere al di sopra dei nostri limiti, impieghiamo le nostre conoscenze e risorse – soprattutto economiche – per trovare il modo di garantire a tutti anche “solo” 80 anni di vita realmente dignitosa. Per riuscirci, però, dovremo superare alcune convinzioni tipiche del nostro tempo. Prima fra tutte, la logica che premia la quantità anche a discapito della qualità, figlia del capitalismo e di quel materialismo estremo su cui abbiamo fondato la nostra società. Se lo faremo, forse, impareremo davvero ad accettarci per quello che siamo: creature di passaggio in un mondo molto più grande e longevo di noi.
Umile umanista di Novara, cresciuta tra campi di basket e montagne di libri. Non dico mai no a una fetta di pizza e a una passeggiata tra amici. Leggo, guardo e ascolto tutto ciò che dà senso e ordine al (mio) mondo. Per lo stesso motivo, scrivo. Non amo le etichette, ma se dovessi sceglierne una per me sarebbe “pragmatica”.