Molti consumatori non sono ancora del tutto consapevoli dell'effettiva dimensione e dell’impatto degli allevamenti intensivi, in Italia e nel mondo. Il costante greenwashing da parte delle grandi aziende agroalimentari e l’associazione del "Made in Italy" come inequivocabile segno di qualità hanno diffuso la convinzione che i metodi intensivi siano ormai una pratica del passato. Non c’è nulla di più falso.
Per allevamento intensivo si intende “quel tipo di allevamento che prevede la custodia, la crescita e la riproduzione degli animali in spazi ristretti e confinati, spesso parzialmente chiusi”. Non è difficile imbattersi nelle immagini e nei video di capannoni in cui vengono ammassate centinaia di galline ovaiole, o delle strette gabbie in cui le mucche da latte vengono costrette per lunghissimi periodi. Ai limitati spazi, che creano negli animali un’infinita quantità di problemi fisici e psicologici, si aggiungono spesso un’alimentazione ricca di antibiotici, le violenze e i barbari metodi di abbattimento, a volte senza stordimento.
Negli ultimi anni, grazie ai costanti allarmi sul cambiamento climatico, è stata fatta luce sull’impatto ambientale di questo tipo di allevamenti. Secondo i dati della FAO, il sistema alimentare è responsabile al 60% della perdita di biodiversità a livello globale, del 26% delle emissioni totali di gas serra e della scomparsa del 75% della diversità genica. Fra le emissioni, il 39% proviene dalla fermentazione enterica – la digestione –, che produce, soprattutto nei bovini, molto metano. In base al CIWF (Compassion in World Farming), l’80% degli animali allevati nel mondo si trova in strutture intensive.
A causa delle difficili condizioni di vita all'interno degli allevamenti intensivi, gli animali sono indotti a comportamenti nocivi, fino ad arrivare ad atti di cannibalismo. La soluzione più frequentemente adottata mette al primo posto la filiera produttiva e non il benessere animale. Per questo vengono spesso effettuate amputazioni (dei becchi nelle galline o delle code nei maiali) e altre procedure atte a inibire l’animale.
Sostenibilità e diritti animali sono due concetti strettamente collegati. Non c’è produzione sostenibile laddove l’animale non abbia a disposizione i giusti spazi per condurre una vita il più possibile simile al suo stato brado. Allevando con metodi intensivi, poi, viene a mancare la qualità stessa del prodotto, con decisive conseguenze sulla salute umana. Secondo un report speciale indetto dalla Corte dei Conti Europea nel 2018, “vi sono prove diffuse che la qualità della carne è influenzata dal benessere dell’animale”. Questo riguarda lo spazio abitativo, il trasporto e i metodi di abbattimento.
Benessere animale è quindi anche benessere umano. I prodotti da allevamento intensivo sono spesso più nocivi: metà degli antibiotici utilizzati nel mondo vengono somministrati agli animali da allevamento, allo scopo di prevenire malattie altrimenti inevitabili in tali condizioni. Il CIWF sostiene che “circa il 70% degli antibiotici venduti in Italia è destinato agli animali”. Fra le conseguenze di questi metodi, tra l'altro, ci sono anche malattie nuove, resistenti ai comuni antibiotici, che possono contagiare l’uomo.
Mentre i metodi intensivi vengono ancora preferiti per questioni economiche e di gestione degli spazi, il consumo di carne continua ad aumentare. Secondo Essereanimali il 99,8% degli animali utilizzati dall’essere umano sono allevati per produrre cibo. Il consumo annuo pro capite di carne, dal 1963 a oggi, è passato da 34 kg a 70 kg.
Nonostante i consumi in costante aumento, l’ultimo rapporto sulla sicurezza alimentare delle Nazioni Unite (2019) dichiara che circa 690 milioni di persone al mondo soffrono la fame. Il numero supera di 10 milioni di unità l’anno precedente, e di quasi 60 milioni i dati di cinque anni fa. I continenti con maggiore incidenza di popolazione denutrita sono l’Asia e l’Africa.
Eppure, 350.000 km quadrati di terra extraeuropea (una superficie più grande dell’Italia) vengono usati per produrre cibo per l’Europa. Parte di quella terra si trova proprio nei paesi con problemi di denutrizione, e viene usata per sfamare gli animali da allevamento. I dati di Science indicano che l’83% delle coltivazioni globali è utilizzato per produrre mangimi.
Lo sfruttamento agricolo riguarda anche i territori europei. Greenpeace fa notare che il 70% della superficie agricola dell’Unione Europea è destinata all’alimentazione del bestiame. L’allevamento di animali corrisponde al 45% dell’attività agricola in Europa, ma genera un fatturato di 168 miliardi di euro e 4 milioni di posti di lavoro. Anche per questo motivo, l’allevamento intensivo è un tema controverso, dibattuto anche negli ultimi due anni.
Il primo passo dell’UE verso un’efficace legislatura in tema di benessere animale è stato fatto nel 1997. In quell’anno, il Trattato di Amsterdam riconobbe per la prima volta a tutti gli animali lo stato di esseri senzienti. Negli anni seguenti, poi, sono state emanate diverse direttive, tuttavia sempre rivolte a fasi della produzione o ad animali specifici. Per questo, oggi, risultano obsolete; la più recente, tra l'altro, risale al 2009.
Pene mai applicate e controlli scarsi: questo è il quadro che emerge dal report dell’ECA (2018). Lo studio dichiara come “ci sono ancora significative discrepanze fra gli standard di benessere animale stabiliti dalle leggi europee e la realtà sul campo”. Fra gli esempi del campione analizzato viene riportato un caso italiano: si tratta di una segnalazione riguardante l’errata detenzione di galline ovaiole, che venivano forzate alla muta tramite la privazione di cibo, acqua e luce per lunghi periodi di tempo. La segnalazione è stata ritirata solo dopo tredici anni.
L’industria agroalimentare italiana viene spesso considerata fra le qualitativamente migliori del mondo. Eppure, i sistemi intensivi sono ancora i più diffusi nel nostro Paese, nonostante molte aziende vantino di rivolgersi solo ai “piccoli allevatori”. Non è raro imbattersi in spot pubblicitari in cui il bestiame sembra vivere libero al pascolo, in luoghi idilliaci, coccolato da allevatori amorevoli e attenti. Purtroppo, la realtà è molto diversa.
L’Italia, nonostante sia un piccolo Paese, è uno dei principali produttori europei di carne, uova e latticini. Questo, certamente, è dovuto alla grande quantità di prodotti DOP, apprezzati in tutto il mondo e spesso derivati da allevamenti intensivi. Nello specifico, si parla di 9 milioni di bovini - di cui però "solo" il 75% è allevato intensivamente - e di 8,5 milioni di suini. Per quanto riguarda il pollame, invece, si contano 137 milioni di capi (più del doppio della popolazione italiana), di cui il 99,8% viene allevato con metodi intensivi. La maggior parte di questi allevamenti si trova al nord, tra Lombardia, Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto.
Un’industria che inquina il nostro territorio e pesa sulla salute nazionale. Essereanimali evidenza uno studio dell’Università di Brescia secondo il quale “1459 morti premature causate dall’esposizione alle polveri sottili potrebbero essere evitate ogni anno in Lombardia se la domanda di proteine animali si dimezzasse.”
Il 20 maggio 2020, la Commissione Europea ha adottato la Farm Fork Strategy: una serie di provvedimenti atti a migliorare le condizioni di vita del bestiame e la sostenibilità delle produzioni. Fra gli obiettivi, è fondamentale la diminuzione delle emissioni di CO2; a tal proposito, l’UE ha avviato una serie di analisi territoriali volte a cogliere le effettive condizioni di vita del bestiame.
Si tratta di un passo significativo, ma i cui risultati sono tutti da vedere. Nel frattempo le scelte per il cittadino restano comunque limitate. L’invito generale è quello alla scelta del biologico certificato, l’unica presente attualmente che garantisce le migliori condizioni di vita degli animali in tutto il processo produttivo. Prodotti fino a qualche anno fa introvabili sono ora più accessibili benché i costi restino elevati.
In definitiva, l'alternativa migliore resta quella della dieta vegetale. Gli esperti parlano di un futuro in cui gli uomini mangeranno sempre meno carne e destineranno molto più terreno all’alimentazione diretta. Per ridurre la propria “impronta ecologica”, diminuire il consumo di carne è un’azione necessaria. Benché non esistano attualmente alimenti ad impatto zero (si fa spesso riferimento all’inquinamento causato dalla filiera della soia), i prodotti di origine animale restano comunque fra i più impattanti in assoluto.
Nata fra le colline Marchigiane, cresciuta a pane e racconti. Ho subito conosciuto il potere delle parole e ho deciso di farne la mia vocazione. Antirazzista, femminista, supporter dei diritti LGBTQ+ e del diritto di autodeterminazione di tutt*. Mi appassionano le leggende e le storie dimenticate, nascoste dal tempo, tra le strade delle nostre città o negli snodi del web. Mi piace decostruire stereotipi e ricercare anche nelle ombrosità quell’umanità che ci accomuna tutt*.