Lo scorso maggio, guerre e devastazioni in Palestina hanno tenuto il mondo col fiato sospeso. Cosa è cambiato da allora?
Facciamo un passo indietro. La culla dei popoli semitici - tra tutti arabi ed ebrei - ha storicamente visto numerose velleità di controllo territoriale, per via della presenza della città sacra per le tre grandi religioni monoteiste: Gerusalemme. Nell’antichità, gli arabi hanno espanso il loro dominio gravitando attorno alla cosiddetta “Terra Promessa”; gli ebrei, al contrario, hanno sempre dovuto lottare per la propria sopravvivenza.
Alla fine dell’Ottocento, il movimento sionista propagandato da Theodor Herzl ribaltò la tendenza. Dopo secoli di dispersione e persecuzioni, gli ebrei ritrovarono una coscienza nazionale che potesse dar vita a uno stato autonomo e indipendente. La “Terra di Israele”, così da loro chiamata, venne colonizzata a seguito di una corposa migrazione, anche grazie agli ingenti flussi di denaro di provenienza ebraica dall’Europa e dall’America.
Gli arabi palestinesi vennero progressivamente espulsi dalla loro terra, ma di certo non stettero con le mani in mano. Sia sul fronte arabo, sia su quello ebraico, nacquero organizzazioni paramilitari di stampo terroristico - su tutte, Hamas. Il crescendo di tensione portò innumerevoli scontri, che causarono numerose vittime tra soldati e civili; così, il disastro umanitario è ancora oggi irrisolto.
Scambio missilistico tra il governo ebraico e Hamas
Pur con sostanziali differenze, il territorio è ancora diviso nei due Stati previsti dai patti della “Risoluzione 181” del 1947: uno ebraico di Israele e uno arabo di Palestina – de facto occupato però in gran parte da Israele. Ancora oggi, la situazione volge a favore di quest’ultimo. Inoltre, per gli occidentali (Stati Uniti in primis) è molto comoda l’esistenza di uno stato ebraico forte in un contesto complesso come il Medio Oriente, dove la maggioranza è araba e musulmana. Gli stessi ebrei in Palestina rimangono un popolo ricco, potente e coeso, al contrario degli arabi, divisi in etnie e fazioni diverse, ridotti sul lastrico e senza un senso comune di appartenenza.
Dallo scorso maggio, lo scenario politico è mutato: il neo primo ministro israeliano, Naftali Bennett, ha messo fine allo storico mandato di Benjamin Netanyahu. L’ex leader sionista, come dichiarato da Herzog, in 12 anni ha trascinato il Paese “in uno stato d’isteria”. Ma le cose saranno davvero cambiate?
Bennett, leader del partito di destra “Yamina”, è oggi a capo di una coalizione piuttosto fragile: sostenuto da ben otto partiti, ha ottenuto il voto soltanto di 60 dei 120 deputati, con 59 contrari e un astenuto.
Il neo primo ministro israeliano Naftali Bennett
Bennett, che peraltro è stato per lungo tempo al fianco di Netanyahu, non è di certo il primo sostenitore dei palestinesi, e ad oggi non c’è stata un’evoluzione significativa delle posizioni di Israele nei loro confronti. Rispetto a Hamas men che meno. Persino il partito arabo-israeliano, in teoria l’unico che potrebbe cambiare le cose, sembra al momento più preoccupato di migliorare le condizioni degli arabi a Gerusalemme che i rapporti con Gaza e con la Palestina.
Gli arabi palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania sono ancora segregati fra due altissimi muri innalzati dall’autorità ebraica. Nella Striscia, in particolare, le condizioni di vita sono al limite della sopravvivenza. La povertà serpeggia, e la densità abitativa è tra le più alte al mondo; l’acqua è in gran parte contaminata e la luce elettrica è disponibile solo poche ore al giorno. Oltretutto, i territori sono ancora perlopiù soggetti al controllo ebraico - in particolare lo spazio aereo, le importazioni ed esportazioni e il sistema fiscale. La stessa cosa accade a Gerusalemme, teoricamente ancora divisa nella zona orientale e occidentale, ma con un progressivo tentativo di sostituzione degli abitanti arabi con cittadini ebrei nella parte est. Acquisti di edifici mirati, sfratti, espulsioni e nuove costruzioni sono all’ordine del giorno.
D’altro canto, non è ancora nell’interesse dello Stato di Israele inglobare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza, perché in quel caso si ritroverebbe una maggioranza araba all’interno del paese che potrebbe rovesciare politicamente il governo. In merito alla Striscia, la sua annessione si configurerebbe anche come un enorme problema economico-sociale di sicurezza interna. Anche Hamas e le altre organizzazioni terroristiche sanno bene che la loro sopravvivenza, il loro potere e i loro interessi dipendono dallo status quo. Lo scontro permette a entrambe le parti di non doversi sedere al tavolo delle trattative. Il governo israeliano e Hamas, in questo senso, sono ancora due nemici che si servono l’un l’altro.
In tutto questo, gli Stati Uniti hanno nella difesa di Israele una motivazione sempre buona per intervenire in Medio Oriente - motivo per cui restano alla finestra, sperando che il governo Bennett agisca con lungimiranza. Gli USA, nel 2017, hanno riconosciuto Gerusalemme come capitale ufficiale di Israele, senza contemporaneamente riconoscere lo Stato di Palestina. La reale nascita di esso, infatti, obbligherebbe migliaia di coloni ebrei a tornare in patria; Israele, così, avrebbe un nemico giurato pienamente padrone di sé sull’uscio di casa.
La situazione odierna grida un sonoro nulla di fatto. Per rovesciare la tendenza, il mondo arabo-palestinese ha chiesto più volte un forte mandato politico che dia vigore alla loro causa e sappia rompere la divisione suicida con la Striscia di Gaza. Cercare di riaprire il negoziato con Israele, però, è al momento inimmaginabile - la Cisgiordania è infatti ancora sotto il debole governo di un partito moderato, al-Fath, presieduto da Mahmud Abbas.
Un palestinese cammina accanto a un edificio distrutto da Israele a Gaza City (Khalil Hamra/AP)
Se la crisi mondiale causata dal Coronavirus sta avendo conseguenze considerevoli per l’immigrazione degli ebrei, essi costituiscono comunque la stragrande maggioranza della popolazione nello Stato di Israele (75,2%). Gli arabi israeliani, invece - tra cristiani e musulmani -, costituiscono la minoranza (20,9%).
Il quadro religioso, invece, è piuttosto variopinto. Dei 7 milioni di ebrei, il 40% si considera laico, e quindi non particolarmente interessato all’ideologia sionista; circa un milione, invece, è di confessione ultra-ortodossa, contrario al sionismo e al militarismo. Provando a fare una proiezione futura, sia le famiglie arabe che quelle ebree ultra-ortodosse possiedono un tasso di fertilità di gran lunga superiore rispetto alle altre; dati questi numeri, perciò, è probabile che col passare del tempo, all’interno di Israele, si configuri una maggioranza anti-sionista. Infine, se ai due milioni di arabi israeliani sommiamo gli arabi palestinesi che vivono in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza (in totale intorno ai 5 milioni di persone), possiamo notare una prospettiva di sorpasso da parte della componente araba su quella ebraica.
In conclusione, è più probabile che sarà la normale curva demografica a migliorare le condizioni degli arabi in Palestina, piuttosto che il nuovo governo Bennett. Certamente, gli inizi del neo primo ministro sono stati piuttosto in salita. Lo scorso giugno, una marcia di ebrei nazionalisti a Gerusalemme ha riacceso le tensioni, senza contare che Netanyahu ha cercato di mettergli i bastoni fra le ruote con un avamposto illegale in Cisgiordania. Sfruttando l'inesperienza del primo ministro, poi, i nemici di Israele hanno lanciato continui attacchi da Gaza e dal Libano in Cisgiordania. C’è dell’altro: in questi mesi, Bennett ha perso buona parte del sostegno della lista di destra-religiosa Yemina, per via dei continui compromessi. Un severo colpo, sulla carta, alle sue ambizioni politiche.
Come già accennato, inoltre, non c’è grande divergenza dalla politica di Netanyahu. Israele continua a opporsi alla formula dei due Stati e continua a sostenere il massiccio progetto di insediamento ebraico in Cisgiordania.
Bennett è alla prova del fuoco, quindi, ma i contenuti rimangono pressoché identici. Gli investimenti economici e un miglioramento delle condizioni di vita a Gaza e in Cisgiordania, per adesso, rimangono solo false promesse. Del resto, ai palestinesi non offre certo prospettive d’indipendenza.
Nel frattempo, lo Stato continua a demolire le case arabo-israeliane a Gerusalemme Est, mentre al confine con Gaza le proteste persistono, insieme alle vittime. Dati questi presupposti, la tregua dello scorso maggio appare sempre più fragile. Al netto di un’uguaglianza di diritti sociali e politici dichiarati da Israele nella Dichiarazione d’Indipendenza del 1947, ancora oggi permangono molti elementi di discrimine.
O più semplicemente Ambro. Non perché non voglia rivelare le mie radici da provincia casertana, ma perché col tempo mi ci sono affezionato. Di indole creativa e anarchica, mi rintano spesso nel mio mondo immaginario. Forse è anche per questo che mi chiamano "orso". Musicista, ascoltatore insaziabile e fervido collezionista di dischi, grazie alla musica mi sento libero di esplorare, di immergermi in lingue, culture, forme d'arte diverse. Spesso, la mia penna incontra storie impossibili e popoli lontani.