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I manga spiegati ai boomer che non li capiscono
09 luglio 2022

I manga spiegati ai boomer che non li capiscono

Negli ultimi tempi, sui media tradizionali, l’incredibile successo dei manga ha fatto scalpore: c’è chi si indigna; chi si stupisce; chi non comprende il fenomeno; chi decide di parlarne ugualmente dimostrando la cecità di una fetta di intellettuali italiani.

I manga non sono spuntati fuori dal nulla, né sono comparsi da poco. In realtà, sono presenti sul mercato italiano da circa quarant’anni, e hanno sempre venduto più di tutti gli altri fumetti. Il boom degli ultimi tempi è dovuto a una serie di circostanze favorevoli e uniche – è vero –, ma non è così sorprendente.

Il “boom” dei manga nel 2021-2022

Durante la pandemia, il mercato italiano del fumetto è cresciuto a dismisura. Secondo i dati dell’AIE – Associazione Italiana Editori –, l’anno scorso i fumetti hanno venduto circa 11 milioni di copie, con un 134% in più rispetto al 2020. In generale, è stata la categoria più acquistata – più della narrativa straniera e dei libri per bambini.

Come detto, all’interno del mercato del fumetto, i manga dominano da sempre. L’anno scorso hanno rappresentato il 58,1% di tutti i fumetti venduti (il 29,7% erano fumetti occidentali e il 12,2% quelli per bambini e ragazzi). Fra il 2019 e il 2021, i manga sono passati da 11,2 milioni di euro di vendite a 58,3 milioni. Secondo l’AIE, la tendenza sta continuando anche nel 2022: nel primo quadrimestre dell’anno sono state vendute circa 3,5 milioni di copie.

I manga cominciano ad apparire anche nelle classifiche dei libri più venduti. Fra il 14 e il 24 aprile scorso, per esempio, il libro più venduto è stato la Celebration Edition di One Piece 100

Tutto questo non è sorprendente. Fino a qualche tempo fa, infatti, i manga non venivano inclusi nelle classifiche – tutt’oggi non sono conteggiati gli acquisti in fumetteria –, perciò nessuno poteva accorgersi che vendevano più di tutti gli altri libri messi insieme. Le classifiche vengono fatte sulle vendite effettuate nelle librerie fisiche, e i manga vi hanno trovato spazio relativamente da poco. One Piece, però – giusto per fare l’esempio più importante –, ha sempre venduto tantissimo: si parla di mezzo miliardo di copie nel mondo e quasi venti milioni in Italia.

Il punto è che i manga venivano venduti perlopiù nelle edicole, poi le edicole sono entrate in crisi – oggi sono circa 15mila; nel 2001 erano il quadruplo – e i manga sono passati sul Web e nelle librerie di varia. Con questo “trasloco”, la vendita già altissima è aumentata ancora di più, perché comprarli nelle librerie fisiche è più facile – un’edicola, anche per questioni di spazio, può tenere soltanto le ultime uscite, mentre una Mondadori qualsiasi può comodamente ospitare tutta la serie, facilitando il recupero e “spingendo” ad acquistare più volumi.

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Foto di Jeena Paradies

Perché i manga vendono tanto?

I manga, in Italia, esistono da più di quarant’anni. Ci sono case editrici che pubblicano praticamente solo manga, come Star Comics (acquistata recentemente da Mondadori), J-Pop Manga (Edizioni BD) e Planet Manga (Panini Comics). I lettori ci sono sempre stati e hanno sempre comprato i volumetti, ma nessuno badava a loro. Il trucco è semplice: i manga costano poco – quasi sempre meno di 5 euro a volume – e fidelizzano il lettore con serie che possono essere anche molto lunghe, garantendo quindi entrate continuative nelle casse delle case editrici.

Vanni Santoni, giornalista e scrittore, ha commentato la cosa dicendo che è ovvio che “due dei migliori fumetti di tutti i tempi (Slam Dunk e L’attacco dei giganti n.d.r.) straccino un qualunque gruppo di romanzi stranieri di una sola stagione. Se si parla solo di qualità, c’è poco da dire: Slam Dunk e L’attacco dei giganti, che sono picchi di quel medium, se la giocano, rispetto alla narrativa, con Tolstoj o Dickens, mica con i benintenzionati romanzucci che vedono normalmente la classifica”. 

Santoni dice anche che gli sembra assurdo mettere i fumetti nelle classifiche dei romanzi, così come candidare i fumettisti ai premi letterari, e probabilmente ha ragione in entrambi i casi. I fumetti e i romanzi sono linguaggi diversi, ed equipararli comporta “una sottovalutazione della Nona Arte”. Santoni aggiunge: “è un modo, più o meno conscio, per dire che sono così buoni da essere al pari dei romanzi”. Quando, in realtà – siamo onesti –, sono buoni tanto quanto un romanzo.

I fumetti sono roba seria, a prescindere da ciò che ne pensano Veltroni e Dorfles

Non è un caso che Veltroni e Dorfles abbiano più di sessant’anni. Sono entrambi giornalisti intelligenti e quotati, hanno scritto libri interessanti e fanno sicuramente parte del corpus intellettuale italiano, ma quando si tratta di fumetti e nuove correnti culturali dimostrano tutta la loro età.

Il conduttore di Per un pugno di libri, qualche tempo fa, si lasciò andare a una riflessione sui libri e i fumetti che fece parecchio scalpore. In particolare, ospite al programma Le parole, disse che “c’è l’idea che, tutto sommato, se uno legge tanti fumetti ha comunque letto qualcosa. La risposta è: Purtroppo no […] Leggere un romanzo è un lavoro più complesso; bisogna imparare a maneggiare qualcosa di molto più lungo, molto più impegnativo. Non è come il fumetto”.

Questa dichiarazione è completamente fuori dal mondo. Leggere un romanzo non è affatto un lavoro più complesso rispetto a leggere un fumetto: è solo un lavoro diverso. Il romanzo segue certe regole, ha una certa struttura e ha bisogno di un certo approccio; il fumetto – essendo una commistione di immagini e parole – necessita di un lavoro di immaginazione diverso.

Anche la parte sull’impegno è completamente campata in aria: Sandman di Neil Gaiman è oggettivamente più stancante di Addio alle armi; un qualsiasi fumetto di Alan Moore è più faticoso di un qualsiasi libro di Verga; 20th Century Boys è più ostico di tantissimi romanzi. L’affermazione sulla lunghezza, invece, è chiaramente l’affermazione di una persona che non ha mai davvero letto un fumetto: il già citato Sandman, One Piece – che va avanti da venticinque anni –, Berlin, La fortezza, Corto Maltese… sono tutti fumetti più lunghi rispetto ai romanzi di Fabio Volo e Hemingway.

Ironicamente, Dorfles ha aggiunto che “se vogliamo lasciare che i giovani abbiano la loro strada personale per arrivare in modo felice alla lettura bisogna lasciarli leggere quello che vogliono”. E cioè una cosa giusta ma esattamente al contrario di quanto detto prima – segno che, semplicemente, non aveva idea di cosa stesse parlando.

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Walter Veltroni, commentando proprio il boom dei manga, ha scritto un editoriale per il Corriere della Sera piuttosto confuso. Giusto per capire il tono: parte dai manga – il titolo dell’articolo è Perché i manga hanno conquistato i nostri ragazzi –, ma poi passa ai BTS e a Squid Game – che coi manga non c’entrano assolutamente niente – e finisce parlando dell’Oriente come nuova America-culla-di-valori. Parafrasando: lui aveva Bob Dylan; i giovani hanno Jungkook.

Forse è vero che oggi l’Oriente è più vicino, ma in un mondo globalizzato e iperconnesso è quasi obbligatorio. Anzi, è più che giusto ricevere influenze e ispirazioni diverse da luoghi differenti. In ogni caso, oltre ad essere confusionario, l’articolo è pure sbagliato.

È vero – come scrive e come abbiamo visto – che i manga costano poco e vendono tanto, ma le altre dichiarazioni sono basate su una conoscenza superficiale del fenomeno. Quando dice che “le storie sono sempre intrise di una violenza parossistica”, per esempio, è chiaro che si sta riferendo a manga come Dragon Ball o Naruto – ed è vero che esistono manga iper-violenti –, ma non tutti funzionano così. In generale, à la Dorfles, usa un caso specifico come esempio di fumetto tout court. Dorfles, parlando dell’impegno, stava palesemente pensando ai fumetti nell’accezione tipica di chi crede che i disegni li rendano cose per bambini. Allo stesso modo, Veltroni usa certi shōnen come esempio di manga tout court, probabilmente ignorando il fatto che non tutti i manga sono shōnen.

Infine, non poteva mancare il commento boomer: “cominceranno dai manga e forse — ma i librai dicono che già è così — scopriranno per questa via altre storie, altri testi, altri paesaggi”. È chiaro che leggere di tutto e cercare di diversificare sia la cosa migliore – più punti di vista, più storie, più crescita personale –, ma non è obbligatorio. Soprattutto, non bisogna augurarsi che i giovani partano dai manga per arrivare ad “altri paesaggi”, come se i manga fossero letteratura di serie B e i romanzi no. Si può dire che Hemingway sia meglio di Tezuka? No. Entrambi hanno una certa importanza all’interno del loro campo specifico.

Banalmente – ma forse tanto banale non è, visto che Dorfles e Veltroni sembrano non saperlo –, esistono manga belli, manga brutti, romanzi belli e romanzi brutti. È lapalissiano che La vetta degli dei di Taniguchi e Yumemakura sia superiore rispetto a un qualsiasi Harmony – che, per essere onesti, è un romanzo di sole parole come Guerra e pace. Al contrario, Jane Austen sarà sempre più profonda di una striscia di Garfield.

Ogni persona, insomma, deve sentirsi libera di leggere quello che vuole, scoprendo da sola i nuovi paesaggi di cui parla Veltroni – e non, come implicitamente intende lui, sentirsi obbligata a doverlo fare perché qualcuno denigra i manga che gli piace leggere. Del resto, c’è anche chi non legge proprio.

Che cosa sono i manga e come “funzionano”

In Giappone, la parola “manga” indica i fumetti in generale – a prescindere dal genere o dal paese di provenienza –, mentre in Occidente viene usata per etichettare i fumetti giapponesi. Non sono un “genere”, come dice Veltroni – e come abbiamo visto –, ma un mezzo.

Originariamente, il termine era utilizzato con accezione negativa, perché significa letteralmente “immagini derisorie”. La parola fu associata ai disegni solo nel XVIII secolo; nel 1814, Hokusai la usò per intitolare una raccolta in quindici volumi che presentò all’Expo di Parigi (Hokusai Manga). Fu solo all’inizio del ‘900, però, che i manga divennero “veri e propri” fumetti, uscendo su riviste specializzate create ad hoc. Dopo la guerra, il mercato editoriale esplose: Kôdansha, Shûeisha e Shôgakukan – editori fra i più rilevanti ancora oggi – lanciarono riviste settimanali o mensili dedicate a generi e target diversi. 

Uno degli autori più importanti – di fatto, quello che creò il manga moderno – è sicuramente Osamu Tezuka. La versione breve della storia è che Tezuka cominciò a disegnare i suoi manga ispirandosi ai cartoni della Disney tanto di moda all’epoca – si parla degli anni ’50 –, perciò con occhioni giganti e tutto il resto. Questo, unito al fatto che i giapponesi presero il mondo americano come ispirazione, standardizzò i personaggi dei manga in un certo modo, tanto che oggi quasi tutti hanno protagonisti che ricordano gli occidentali. In realtà, le circostanze sono più complicate e particolari – esistono manga con personaggi spiccatamente nipponici o di altre etnie –, ma in linea generale il modello è questo.

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Osamu Tezuka

I manga si leggono al contrario: si parte dalla vignetta in alto a destra dell’ultima pagina, si prosegue con quella subito a fianco e si ricomincia con quella in basso a destra. Anche i dialoghi vanno letti da destra a sinistra.

I manga sono pubblicati a capitoli sulle riviste settimanali o mensili, e la loro lunghezza è variabile. A meno di pause da parte degli autori, ogni numero della rivista pubblica un capitolo di ogni serie attualmente in corso; quelle di successo vengono ristampate in volumetti singoli detti tankōbon (“brossura”), che contengono un numero variabile di capitoli.

Molto spesso, i mangaka si occupano sia dei disegni che delle sceneggiature – il mangaka sarebbe colui che fa i manga –, perciò le loro sessioni di lavoro sono devastanti. Ogni autore è affiancato da uno o più editor che devono guidarlo lungo il percorso con consigli e suggerimenti per rendere migliore la sua storia. 

Essendo pubblicazioni periodiche serrate, i mangaka sono costretti a lavorare tutto il giorno per poter consegnare in tempo il materiale. Questo spiega perché si prendono delle pause, perché soffrono spesso di problemi di salute e perché tutti hanno degli assistenti che disegnano gli sfondi o i dettagli meno importanti.

Molto spesso, i manga vengono adattati in cartoni animati (i cosiddetti “anime”, che in Giappone sono i cartoni in generale). Gli anime sono fondamentali, perché si diffondono facilmente fra il grande pubblico e spingono la gente a comprare il manga da cui sono tratti. Non è un caso che moltissimi fumetti comincino a vendere milioni di copie in concomitanza con l’uscita del rispettivo anime.

Le serie manga sono pensate per avere un finale ben definito. Se il fumetto supereroistico americano è una soap opera che va avanti a oltranza senza avere una fine – e che da oltre sessant’anni propone storie su storie con gli stessi personaggi –, il manga è come una serie tv: quando vende poco, la casa editrice chiude tutto senza troppe remore, dando al mangaka giusto il tempo di risolvere le trame in sospeso. Il mangaka di una serie di successo, invece, decide di finire la storia quando più se la sente; tuttavia, deve notificare le sue intenzioni un paio d’anni prima – salvo rarissime eccezioni –, in modo tale che la casa editrice possa prepararsi al meglio per festeggiare l’evento e sopperire alla perdita di una grande hit.

Generi e target

Alla fine degli anni ’70, le neonate tv private avevano bisogno di riempire i palinsesti; i cartoni giapponesi, costando pochissimo, erano perfetti. Mazinga Z, Goldrake, Candy Candy, Lady Oscar, Harlock, Mila e Shiro – solo per citarne alcuni – fecero la loro comparsa proprio in questo periodo, e poco dopo vennero seguiti dalla controparte cartacea da cui erano tratti. Sin da allora, i manga hanno sempre venduto e sono sempre stati letti tantissimo, creando folte schiere di appassionati che certa intellettualità italiana era troppo cieca per vedere. Anche adesso, per loro, tutti i manga parlano di gente che si prende a cartellate come se non ci fosse un domani. In realtà, i fumetti giapponesi sono un mondo intero.

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Due cosplayer che ricreano la fusione di Dragon Ball

Generalmente, i manga vengono divisi per target di età. I manga josei, per esempio, sono indirizzati a un pubblico femminile maggiorenne; i seinen, al contrario, sono pensati per la controparte maschile. I shōjo sono manga indirizzati a un pubblico femminile che va dall’età scolare alla maggiore età, così come i manga shōnen lo sono per i maschi. I kodomo sono i manga per i bambini.

Questa divisione è utile per le riviste specializzate: Weekly Shōnen Jump, com’è presumibile, pubblica solo manga shōnen, e quindi è idealmente pensata per un pubblico maschile. Nonostante questo, però, nessuno vieta a una donna di quarant’anni di comprare Weekly Shōnen Jump, e lo spettro di lettori è sempre molto variegato.

Dietro a questi target, che via via stanno quasi perdendo di significato, ci sono manga su qualsiasi cosa. Si cerca un manga che parla di calcio? C’è Capitan Tsubasa. Si cerca un manga che parla di cucina? Happy Cooking Graffiti. Si cerca un manga che parla di agricoltura? C’è Silver Spoon. Si cerca un manga ambientato a scuola? Ce ne sono anche troppi. Esistono manga su praticamente qualsiasi sport, sulla mafia, sulla polizia; ci sono manga romantici, d’azione, fantasy, di formazione. C’è la Divina Commedia, Lovecraft, Batman; ci sono manga sui robot giganti e manga che parlano di gente che vuole fare manga. Ci sono anche i manga dove la gente si prende a cartellate come se non ci fosse un domani. La mia vita in barca, tanto per dirne uno, parla di uno scrittore senza più ispirazione che si ricongiunge alla sua vecchia passione per la pesca.

Come nel fumetto occidentale ci sono storie per tutti i gusti – dai supereroi in calzamaglia ai lupi blu che si innamorano di una gallina –, così i manga spaziano di genere in genere. Sono disegnati diversamente, pubblicati diversamente e culturalmente diversi, ma non per questo sono una cosa strana e pericolosa. Fondamentalmente, è un altro modo di utilizzare lo stesso mezzo espressivo – il fumetto –, e conoscere le meravigliose storie che lo popolano è fare un favore a se stessi.

Alessandro Mambelli

Alessandro Mambelli

Sono nato in Romagna (terra “solatia, dolce paese”, come scriveva Pascoli) e da qui mi sposto sempre a malincuore. Guardo un sacco di film e monto un sacco di Lego, ma a volte esco anche di casa per andare in libreria. Scrivo per capire il mondo che mi circonda, in qualsiasi forma si presenti.

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