«Oggi io non ho la speranza di vedere la verità e la giustizia venire fuori, ma sono convinto che i giovani a cui parlo la vedranno. Sono convinto che vedranno la verità e sarà fatta giustizia sulla morte di Paolo. I giovani sono il nostro futuro, Paolo amava parlare ai giovani. In una lettera Paolo scriveva: Sono ottimista perché credo che verso la criminalità mafiosa i giovani siciliani e non, hanno oggi un’attenzione diversa di quella colpevole di indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni"».
Sono le sei di pomeriggio di qualche giorno fa quando incontro Salvatore Borsellino. Seguivo da anni il suo lavoro, la sua determinazione, la sua speranza e il suo non stancarsi mai. Per Salvatore ogni secondo era ed è prezioso per parlare e farsi voce di suo fratello Paolo. Allora ho chiesto lui di raccontarmi di Paolo Borsellino e di cosa è davvero accaduto in quei pochi anni dopo il Maxi-processo del 1986 in cui Paolo e Giovanni la mafia l'avevano sconfitta per davvero. Salvatore mi ha confidato che dopo ventinove anni lui è sicuro che la verità sulle stragi del 1992, in un futuro prossimo, verrà fuori. E ne sono sicuro anche io che non ero ancora nato.
Partiamo da una data, il 15 luglio del 2007. Quattro giorni prima dal ricordare i quindici anni senza Paolo Borsellino. In quale momento decide di scrivere la lettera 19 luglio 1992: una strage di stato e come si costruisce questa consapevolezza in lei?
«Io subito dopo l’assassinio di mio fratello e per 5 anni, dal ’92 al ’97, ho provato a seguire quello che ci aveva chiesto nostra madre, - a me e mia sorella Rita, i figli che le restavano - che ci disse “adesso dovete andare dappertutto, dovunque vi chiamino per parlare del sogno di Paolo”. Io l’ho fatto dal 1992 al 1997, però allora ai ragazzi andavo a parlare di speranza, quella speranza che era nata in me vedendo quella che era stata la reazione della gente, che sembrava anche essere stata la reazione dello Stato dopo l’assassinio di Paolo. Da un lato c’era Palermo in cui iniziavano a nascere alcuni movimenti. C’era stato il comitato dei lenzuoli che aveva riempito i balconi di Palermo con scritte contro la mafia e a Palermo un lenzuolo con una scritta contro la mafia è una dichiarazione di guerra. É dichiarare: “Io non accetto tutto questo, io non pago il pizzo”. E sembrava anche che l’indifferenza, il pensare “non è affar mio”, diventasse sempre più inusuale. Ma durò poco. Subito dopo la vampata successiva ai funerali di Paolo era subentrata di nuovo l’indifferenza. Quella che sembrava essere la reazione dello Stato - che non c’era stata subito dopo l’omicidio di Falcone e che invece ci fu dopo l’assassinio di Paolo - in cui i mafiosi vennero messi su aerei militari e portati all’Asinara o Pianosa, interrompendo quei legami tra mafiosi che erano alla base delle attività. Quindi sembrava che ci fosse stata una vera reazione e posizione dalla parte sana dello Stato. Poi a poco a poco iniziarono i primi segni di cedimento, primo fra tutti l’iniziativa del ministro Consoli che in un solo colpo mise fuori dal 41bis - 41bis che Paolo e Giovanni avevano fortemente voluto - ben trecento mafiosi e ci furono altri segnali, che a poco a poco fecero si che io quell’entusiasmo che avevo avuto nel parlare ai ragazzi di speranza, andando nelle scuole, piano piano si assopiva. Parlavo ai giovani anche perché Paolo in primis nella sua ultima lettera scrisse che la sua speranza erano proprio i giovani, addirittura nell’ultima lettera, in cui i giovani gli chiedevano come vedeva il futuro della sua lotta, lui si dichiara ottimista e quella lettera porta la stessa data della sua morte. Ricordiamo che Paolo in quei giorni sa che a Palermo è arrivato il tritolo per ucciderlo. Nella lettera Paolo scriveva questo: “ Sono ottimista perché credo che verso la criminalità mafiosa i giovani siciliani e non hanno oggi un’attenzione diversa di quella colpevole di indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni” Si accusa di indifferenza perché Paolo sino al 1980 si era occupato solo di giustizia civile ed era addirittura per questa sua passione per il diritto privato che Paolo aveva scelto di intraprendere la carriera del magistrato. Nel 1980 viene affidato lui il primo delitto di mafia del capitano Basile che era, fra l’altro, stato anche un suo collaboratore. Io a poco a poco vedendo il rimontare dell’indifferenza e di questi segnali negativi che allora non riuscivo bene a decifrare, da parte dello Stato, ma che poi elaboro negli anni in cui sono stato in silenzio - il mio silenzio è durato dal 1997 al 2007, decido appunto di ritirarmi. Il mio silenzio comincia nel 1997, anno in cui muore mia madre. Da quel momento non sento dentro di me la fiamma che mi portava a parlare di speranza ai giovani. Mi chiedevo come potessi parlare di speranza se io per primo avevo perso quella speranza. Quando parlavo di speranza in quei tempi inizio a sentire che la mia voce è falsa, non è la mia voce, non è quello che io ho dentro».
Iniziano così i suoi dieci anni di silenzio, in cui in realtà ha elaborato ciò che potesse essere successo tra la fine del Maxi-processo e il '92
«Sì, decido così di cominciare quei lunghi anni di silenzio in cui, in realtà cercavo di capire cosa realmente fosse successo. Comincio banalmente da internet, su alcuni libri. In particolare trovai un libro, l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino di Peppino Lo Bianco e Sandra Rizza e questo mi porta a cominciare a capire determinate cose. Io dopo l'assassinio di mio fratello pensavo che l’unica colpa dello Stato è che non avesse sufficientemente protetto mio fratello. Allora inizio ad elaborare. In via D’Amelio, quando ci fu l’attentato non c’era neanche il divieto di sosta. Paolo era legatissimo a mia madre, andava almeno 3 volte a settimana da lei. Non avere il divieto di sosta in quella strada significava per la sua scorta non potere fare la bonifica. A poco a poco incomincio a capire che c’era altro. Non pensavo ancora alla trattativa e a tutto quello che poi ho capito, a mio avviso, essere la causa scatenante dell’assassinio di Paolo. Io mi sono convinto che il motivo per cui è stato accelerato l’assassinio di mio fratello era un altro. É vero che Giovanni e Paolo erano stati condannati a morte nella riunione di natale in un casolare di Enna nel 1990 dalla cupola mafiosa però la mafia sa aspettare. La mafia sa aspettare ed avrebbe aspettato. Non aveva alcun bisogno della morte di mio fratello. Quando Rina dice di voler preparare l’attentato al giudice Borsellino, ci sono altri componenti della cupola di Cosa nostra che gli dicono “non è questo il momento”, invece Rina risponde in maniera schietta dicendo “lo dobbiamo fare e lo dobbiamo fare presto”. Non spiega nemmeno il perché agli altri componenti della cupola».
Arriviamo così alla Trattativa Stato-mafia. Paolo aveva scoperto e si era messo di traverso?
«Tutti questi elementi mi hanno portato a capire che mio fratello è stato ucciso perché si è messo di traverso, si è opposto di fronte a quella scellerata Trattativa. Sicuramente Paolo aveva capito. Ci sono diversi indizi negli ultimi 57 giorni di Paolo. Paolo viene ucciso perché con Paolo vivo la trattativa non sarebbe potuta andare avanti. Non avrebbe mai accettato che si venisse a patti con quelli che sono stati gli assassini di Giovanni Falcone. Non deve essere eliminato solo Paolo ma anche la sua agenda rossa. Ma i mafiosi non avevano alcun interesse a rubare l’agenda di Paolo. Ciò che era scritto nell’agenda rossa, che poi erano le rivelazioni degli ultimi giorni di Gaspare Mutolo o Leonardo Messina, i primi collaboratori a rivelare delle infiltrazioni della mafia all’interno delle istituzioni. Gaspare Mutolo parla del giudice Signorino, che fu uno dei Pm del Maxi-Processo e si sparerà un colpo di rivoltella quando, dopo la morte di Paolo, gli vengono contestate le accuse fatte da Gaspare Mutolo. Paolo e i pentiti parlano di Contrada. Bruno Contrada che era il numero tre dei Servizi Segreti a Palermo, si era totalmente venduto alla mafia. Queste cose nell’agenda di Paolo c’erano scritte. Ci sono tante cose che Paolo non aveva ancora rivelato, che invece ha rivelato negli ultimi mesi di vita la moglie di Paolo, Agnese, alla quale Paolo confida che Subranni, capo dei ROS, era “punciuto”, termine che non significa colluso con la mafia, ma affiliato con la mafia. Paolo, riferisce Agnese, vomita immediatamente dopo aver detto questo. Nonostante Subranni dice che mia cognata Agnese non era più capace di intendere e volere, ti assicuro che Agnese non è mai stata così lucida come negli ultimi mesi della sua vita, quando decide di dire cose che non aveva ancora detto per proteggere i suoi figli. Agnese era placcata, seguita a vista dopo la morte di Paolo. Le dicevano “stai tranquilla, ricorda di avere dei figli”. Solo quando è sicura di morire e con i figli adulti, decide di dire le cose non dette. In quegli anni di Trattativa si leggeva poco o comunque c’era scarsa circolazione. Tutti questi elementi insieme ad altri mi hanno fatto capire che la morte di Paolo era dovuta a quella scellerata Trattativa, allora decisi di scrivere la lettera 1992: Una strage di Stato. Su quella lettera meditavo da anni. Volevo dare vita ad un movimento che fosse fuori dalla politica ed avesse come unico obiettivo cercare verità e giustizia per la morte di mio fratello Paolo e per le stragi del 1992 e 1993. La lettera che ebbe una diffusione incredibile. Contestualmente ricominciai a parlare nelle scuole. All’inizio era la rabbia che mi spronava parlare. Piano, piano la speranza ha ricominciato ad illuminarmi. Oggi non spero di vedere la verità e la giustizia venire fuori, ma sono convinto che i giovani a cui parlo la vedranno. Sono convinto che vedranno la verità e sarà fatta giustizia sulla morte di Paolo».
Lei crede che l’ordine fu tutto di Riina o, come si legge in alcune intercettazioni “Riina dovesse fare un piacere a qualcun altro”?
«Quando riunisce la cupola, i membri dicono a Riina che quello non era il momento. Lui ribadisce l’urgenza di accelerare l’uccisione di Paolo assumendosene lui stesso la responsabilità. Il pentito Cancemi che lei citava prima disse proprio “Rina era nervoso, era come se dovesse fare un piacere a qualcuno”. Cancemi era uno di quelli contrari all’omicidio Borsellino. Cosa nostra non aveva il bisogno di quel delitto. Il 41bis sarebbe stato approvato solo successivamente all’omicidio di Paolo e Cosa nostra non sarebbe stata così ingenua da accelerare l’approvazione del 41bis. Il decreto legge non era ancora stato confermato nel momento in cui Paolo muore. La parte sana dello Stato reagisce. Tantissimi mafiosi vengono portati dall’Ucciardone all’Asinara, in Sardegna. Cosa nostra non aveva alcun interesse in questo. La sentenza Borsellino Quater afferma che c’è stato un depistaggio di Stato. Un depistaggio di Stato. Il depistaggio di Stato è servito a far sì che l’opinione pubblica non conoscesse determinate verità. Sentire parlare di Trattativa, trent' anni dopo, non interessa a nessuno. L’agenda rossa era la parte più importante e necessaria, quindi il più importante da far sparire. La sola morte di Paolo non serviva a nulla se l’agenda integra fosse arrivata nelle mani dello Stato. Durante Borsellino Quater ho sentito sette testimoni dare versioni totalmente discordanti. Credo che mio fratello Paolo si sia sacrificato, sapeva che solo con la sua morte avrebbe potuto continuare a fare veramente qualcosa. Per lui deve essere stato terribile realizzare che pezzi di quello stesso Stato in cui riponeva tutta la sua fiducia e il suo credo gli stavano remando contro. Paolo lo ha accettato. Se tu oggi sei qui a parlare di Paolo Borsellino è perché Paolo ha sacrificato la sua vita. Quando i giovani alzano l'agenda rossa è perché capiscono che Paolo si è sacrificato».
Ci sono altri elementi di rilievo nel depistaggio che ricorda?
«Il capo dei pompieri che arriva in via d’Amelio, nella sua testimonianza, dice che arrivati sul posto hanno cominciato a guardare - come era prassi in quei casi - se ci fossero dei feriti a cui prestare soccorso e riferisce che non ha potuto vedere nell'auto di Paolo perché i vetri erano annebbiati dal fumo. Ayala dice che arrivando in via D’Amelio, vede in macchina la borsa di Paolo e la fa prendere da uno dei suoi agenti di scorta. Ma come fa a vedere la borsa se i vetri della macchina erano totalmente anneriti dal fumo e dalle fiamme? Ma se da magistrato sa benissimo che non bisogna alterare il luogo della strage, perché riferisce di aver dato ordine di prendere la borsa? Perché Arcangioli prende la borsa, la porta via e poi la borsa viene rimessa sul sedile della macchina di Paolo? Aspettano che la macchina prenda fuoco dai ritorni di fiamme in modo da bruciare totalmente le prove che l'agenda fosse sparita. Sono tutti elementi che fanno capire dove si pone la verità anche se la verità non è ancora stata svelata. Si è sempre cercato di trovare dei parafulmini affinché la parte deviata dello Stato non venisse alla luce. Finché le indagini saranno fatte dalla procura di Caltanissetta è difficile che venga fuori qualcosa. Come disse Ilardo al colonnello Mori quando lo incontrò poiché si stava per aprire il programma di protezione per lui: “tanti omicidi che avete commesso voi li avete addebitati a noi” e Mori girò i tacchi e se ne andò, non reagì in alcun modo. Quella è la verità: la mafia è sempre stata utilizzata per fare i lavori sporchi. Anzi, quando erano troppo sporchi però li facevano direttamente. Lo stesso Brusca disse dopo la strage - e queste sono sue parole - “Ho avuto l’impressione di non essere stato io a premere quel pulsante”. Sicuramente ci sarà stato un doppio comando quel giorno, quell’attentato non poteva fallire. Tu immagina cosa sarebbe accaduto se Falcone fosse sopravvissuto all’attentato quel giorno. Sarebbe cambiata totalmente la storia del nostro paese. A parte il fatto che già allora esisteva il bombjammer, dispositivo che avrebbe potuto, se presente nella macchina di Falcone o in quella di mio fratello, neutralizzare le frequenze tra il telecomando e l’ordigno. Bombjammer che noi abbiamo chiesto a gran voce a Roma, con le nostre agende rosse, che venisse fornito a Di Matteo».
Giovanni e Paolo non avevano armi, non avevano bombe, non avevano pistole. C’è un arma che ha sempre fatto paura alla mafia però; più di bombe, fucili e proiettili e Paolo e Giovanni lo avevano scoperto. L’arma era il coraggio. L’agenda rossa negli anni ha assunto tantissimi significati. Uno tra tutti è il coraggio. Che valore ha acquistato nell’immaginario collettivo l’agenda rossa negli anni?
«Credo che l’agenda rossa sia diventata il simbolo della ricerca di verità e giustizia. Dopo la morte di Paolo, ogni anno il 19 luglio c’era la consuetudine di andare in via D’Amelio a depositare delle corone di alloro. Allora un anno ci andai apposta perché non riuscivo a credere che rappresentanti delle istituzioni andavano a Palermo sul luogo della strage a depositare delle corone di alloro, mi davano l’impressione di avvoltoi che andavano sul luogo della strage a mettere il sigillo sul fatto che Paolo fosse morto. Mentre Paolo per me non era morto. Per me mio fratello era più vivo di quando era in vita. Il primo anno che andai vidi Schifani, se ben ricordo, era presidente del Senato, andare a portare lì una corona, a me venne immediatamente l’impulso di fermarli e dirgli “Questa corona andatela a portare ai vostri eroi, perché questi sono i nostri eroi e non dovete toccarli”. Allora decisi che da quell’anno nessuno avrebbe dovuto più portare corone di alloro in Via D’Amelio. Non abbiamo fatto altro che andare lì, ogni 19 luglio, ad alzare delle agende rosse, e quando alcuni rappresentanti delle istituzioni arrivavano, noi ci giravamo di spalle e alzavamo le agende rosse. Ecco, è bastato questo simbolo. É bastata questa agenda rossa per far si che dal 2007 nessun rappresentante delle istituzioni si presentasse in via D’Amelio. Se non è mai più venuto nessuno significa che questa agenda rossa ricorda loro qualcosa di terribile. Questo è il potere dell’agenda rossa».
Prima mi accennava che andando via da Palermo pensava di essersi liberato di quel mondo, è così?
«Pensavo che venendo a Milano mi sarei lasciato dietro tutto quel mondo. Mi sono accorto di sbagliare. Oggi la mafia è presente in ogni luogo e in modi e forme molto più pericolosi di quelle del ’90, con rapporti solidi in politica. Allora i morti ammazzati per strada li vedevamo. Vedevamo cosa faceva la mafia e quanto distruggeva. E io pensavo, estraneo alle logiche di potere, che la mafia fosse quello. Non mi ponevo nemmeno l’idea che allora ci fosse una mafia-stato. La forza della mafia non è la componente criminale. La forza della mafia è tutto ciò che le sta attorno, tutti i rapporti. La mafia è la collusione, la mafia è l’indifferenza. Quando abitavo a Palermo, per me Stato e mafia coincidevano. Coincidevano nella misura in cui diverse figure centrali, come ad esempio Vito Ciancimino sindaco della mia città, erano mafiosi. Pensavo che lasciandomi alle spalle quella realtà me ne sarei liberato. Mi sbagliavo».
Nel 2015 lei inserisce un' altra pietra nel lavoro di memoria, nell'impegno di tenere vivo il ricordo di suo fratello Paolo Borsellino. Nasce “la Casa di Paolo”: cosa si fa nella Casa di Paolo e quali sono i sentimenti che ha incrociato nelle persone che l’hanno frequentata in questi cinque anni?
«Ho voluto far nascere quella casa perché sono profondamente legato al quartiere di Palermo dove sono nato, la Kalsa. Lì ci sono i miei ricordi più belli. I ricordi di quando io e Paolo eravamo piccoli e percorrevamo quella strada per andare a scuola. Lì, in quel quartiere è nato anche Giovanni Falcone. Da bambini ci ritrovavamo a giocare con quei bambini che poi, molto spesso, Paolo ha dovuto processare. Kalsa è un quartiere povero di Palermo, come lo è lo Zen. Sono caratterizzati da spirali perverse, emarginazione, criminalità e molte volte anche criminalità organizzata. Allo stesso pallone tiravamo calci io, Paolo, Giovanni, ma anche, ad esempio, Tommaso Buscetta, anche Masino Spadaro. La casa di Paolo è Paolo che vive per sempre in quel quartiere, il nostro quartiere. Sono sicuro che come io amo quel quartiere lo ama Paolo. Ho voluto che questo posto però, non fosse un museo, ma che la gente potesse viverci, costruire, che la gente potesse trovare l'amore di Paolo. Ho voluto che i ragazzi di quel quartiere, che è un quartiere a rischio, potessero trovare l'amore di Paolo attraverso il lavoro di quei volontari che consenta ai ragazzi di trovare l'amore che non trovano nelle loro case, sia da un punto di vista materiale, per la loro povertà, sia affettivo».
Salvatore ha voluto che da tutto il mondo si potesse osservare chi sono oggi le persone che quel 19 luglio sacrificarono la propria vita. www.viadamelio.it è il sito dove potete vedere, in ogni momento e in tempo reale, l'ulivo che cresce nel punto in cui a Paolo, Agostino, Emanuela, Vincenzo, Walter e Claudio è stata strappata la vita.
Lucano di nascita, ho studiato a Bologna. Il venerdì sera penso ancora di viverci. In sei anni ho cambiato quattro città. Quando sono triste ascolto De Andrè, quando sono felice pure. Mi piace costruire domande. Ho una meta ma sta ancora prendendo forma, nel frattempo continuo a camminare.