Lontani dagli affetti, dalla casa e dalla propria quotidianità per raggiungere una salvezza che può voler dire ripartire da zero. Lasciandosi l’Ucraina alle spalle, forse per sempre. Ogni giorno, i profughi superano i confini stremati da lunghissimi viaggi, anche a piedi per poi disperdersi silenziosamente lungo tutta l’Europa. Un flusso costante che passa principalmente dalla Polonia - la nazione che al momento raccoglie la maggior parte dei cittadini ucraini, con oltre due milioni di persone.
Nelle scorse settimane, il videomaker Nicola Guaita è stato al confine polacco, nella piccola località di Medyka. Partito da Milano, è giunto sul confine ucraino passando da Cracovia. Qui ha realizzato un reportage. Grazie alla sua testimonianza, abbiamo provato a ricostruire e a descrivere quello che è accaduto e che continua ad accadere lungo i corridoi umanitari polacchi.
Ecco Border, il reportage di Nicola Guaita
Nicola, perché hai deciso di raggiungere il confine?
«Vedendo le immagini del conflitto e la situazione al confine ho pensato che il contributo che potevo dare, dal punto di vista dei filmati, era più qualitativo che narrativo. Non volevo costruire o impacchettare una storia strappalacrime. Volevo far coincidere il mio occhio con la qualità dei miei video, aiutandomi con le attrezzature che utilizzo per lavorare e raccontare quello che sta succedendo in Ucraina. Logicamente, una volta che arrivi lì, il contributo si sposta anche sul piano umano: ho aiutato le persone che arrivavano al confine perché, per come è strutturato l'arrivo dei profughi al campo, chiunque può dare una mano. Il mio aiuto consisteva maggiormente nello spostare bagagli, portare da bere e da mangiare, sistemare i profughi nelle tende al caldo e al riparo per riposarsi. Raccontare il freddo di quel posto non rende l’idea. Temperature che toccavano i -10° C. Stando fermi si muore congelati. L’assistenza in questi casi è importante sotto questo punto di vista.»
All'interno delle tende del campo di Medyka. Qui le temperature sono scese fino ai -10°C (Dal reportage Border di Nicola Guaita)
Eri da solo o c’era qualcuno con te?
«Sono partito con un mio amico che era già stato precedentemente sia in Africa che in Polonia, dove ha vissuto per un periodo. Mi ha potuto dare una mano sotto diversi punti di vista, sia a livello logistico che per l'attrezzatura - quando banalmente dovevo cambiare l’obiettivo della camera.»
Già a Cracovia, alla stazione centrale - come hai scritto sulla tua pagina Instagram -, hai notato un’atmosfera diversa rispetto alla classica confusione che c’è davanti ai treni. Chi cerca di allontanarsi il più possibile dall’Ucraina e chi cerca di avvicinarsi - come te - per documentare e aiutare chi ha bisogno. Puoi descrivere la situazione?
«In stazione a Cracovia c’erano persone ferme lì da giorni, che aspettavano magari un parente o chiunque altro per poi spostarsi in gruppo. Oppure c'è chi aspetta un treno da ore che poi non passa più. All’interno della stazione ci sono diverse associazioni che si occupano dei profughi che non hanno un posto dove stare, non hanno una meta, una direzione o una strada per fuggire. Anche se Cracovia rimane lontana dal confine - 4 ore di autobus -, molti sono in questa situazione.»
(Dal reportage Border di Nicola Guaita)
Dopo aver sostato a Cracovia, com'è proseguito il viaggio?
«Mi sono spostato in autobus da Cracovia verso il confine: alla partenza era stracolmo e pieno di gente, ma più ci si avvicinava al confine e più si svuotava. Quando siamo scesi eravamo in cinque, tutti reporter. Ho anche acquistato due biglietti per il treno, uno alle 9:00 uno alle 11:00, ma entrambi non sono mai passati. Piano piano i treni scomparivano anche dagli avvisi. Secondo molti lo fanno di proposito, perché se gli orari sono troppo precisi le persone si ammassano tutte ad un orario specifico. Ma non ha molto senso, altrimenti nessun polacco potrebbe prendere un treno da Cracovia. Semplicemente, credo fossero ritardi causati dall’affollamento della tratta Cracovia-confine.»
E alla fine sei giunto a Medyka. Che situazione hai trovato lì?
«Sono giunto prima a Przemyśl, che è l’ultima città prima del confine. Al confine c’è Medyka, più una località che un paese. Saranno una ventina di case. A Przemyśl la stazione era stracolma. È forse la città polacca verso cui si dirigono maggiormente gli ucraini perché a Medyka è presente solo il campo profughi, più un supermercato e la dogana. Appena i profughi arrivano lì, cercano di andarsene subito e fuggire verso Przemyśl. Non sempre i mezzi di trasporto ci sono per tutti, quindi qualcuno non sa neanche come fare. Molti restano bloccati al campo profughi. La meta a cui effettivamente “ci si ferma” è Przemyśl. A Medyka la situazione risulta meno tragica rispetto a quella che ti ho descritto prima a Cracovia. Questo perché quando arrivano al confine, gli ucraini hanno terminato un viaggio che è durato una settimana. Una volta che ti sposti a Przemysl e poi a Cracovia ti rendi che sei arrivato in Europa e che sei salvo, ma contemporaneamente non sai più se hai una casa, se hai perso tuo padre oppure se tuo marito sta combattendo in Ucraina.
Le tende del campo (Dal reportage Border di Nicola Guaita)
Si rendono conto solo lì di avere due valigie e nient'altro. Lo sguardo perso delle persone lo vedi più a Cracovia che a Medyka. Lì stanno il meno possibile perché le condizioni climatiche sono terribili. Io a Medyka non sono riuscito a dormire, sono rimasto sveglio ogni singolo secondo. Non riuscivo a sedermi dal freddo che entrava da dentro le tende riscaldate. Per sopravvivere a questa situazione, uscivo fuori con le temperature a -10°C cercando di accumulare più freddo possibile, poi entravo per godermi 15 - 20 min di sbalzo termico. Ho fatto così tutta la notte. Un americano mi ha fatto pensare a quello che stanno passando i civili, le donne e i bambini di Mariupol, dove ci sono 10 gradi in meno rispetto a Medyka e dove non ci sono elettricità e gas perché la città è sotto costante bombardamento.»
Poche settimane fa, la Polonia ha annunciato che il flusso dei profughi dall’Ucraina, per la nazione, è diventato quasi insostenibile. Stiamo parlando di una nazione che ha accolto più di 2 milioni di profughi e la cifra è destinata ad aumentare. Ti senti d’accordo con tutto ciò? Hai potuto constatare che c’è bisogno di maggiore cooperazione tra le nazioni?
«Non mi sono occupato di questo aspetto in particolare. Effettivamente la Polonia se li sta caricando tutti sulle proprie spalle, anche perché ha confini più sicuri rispetto alle altre nazioni. Non so che tipo di piano abbiano pensato per i rifugiati, ma credo che i profughi ucraini abbiano accesso a ogni tipo di servizio, anche senza cittadinanza, che sia la sanità oppure la possibilità di entrare nel mondo del lavoro.»
Medyka è un luogo che accoglie tutti i profughi di passaggio. Fra le tante scene a cui hai sicuramente assistito e che hai potuto raccontare, ci sono state situazioni complicate o drammatiche?
«Sono poche le persone, in percentuale, che restano a Medyka. Quelli che lo fanno probabilmente aspettano qualcuno dal territorio ucraino, oppure hanno un passaggio per il giorno dopo. Quelli che aspettano a Medyka per più giorni si rendono conto che non hanno più nulla. La drammaticità sta nel vedere queste persone con poche cose essenziali e magari senza qualche familiare al seguito perché è rimasto in Ucraina.»
Nel particolare, ti è rimasta impressa qualche scena?
«Lungo il sentiero della frontiera, che si percorre a piedi e che porta in Polonia. Sono rimasto sveglio a documentare tutta la notte. Dalle 4 del mattino in poi non facevano altro che arrivavare persone a piedi. Ai lati del sentiero è pieno di tende di volontari che sono sulla strada per offrire qualsiasi cosa: una sim gratis per il telefono, un pasto caldo, coperte o vestiti. Insomma, qualsiasi cosa possa servire nell’immediato.»
(Dal reportage Border di Nicola Guaita)
Quanto tempo sei rimasto a Medyka? Ti sei spostato o sei rimasto principalmente lì?
«A Medyka sono arrivato alle 6.30 del 17 marzo e sono andato via il giorno dopo in tarda mattinata. Ho coperto la fase della notte, dove ci sono meno volontari. Se vuoi dare una mano a Medyka puoi farlo, ma devi tenere conto che sei isolato e che non c’è posto per dormire se non qualche brandina per i profughi stessi. Come ho detto prima, è un luogo di passaggio. Sarei potuto anche tornare a Medyka, ma è difficile il trasferimento. Allo stesso modo, anche arrivare a Przemyśl è complicato, perché non ti puoi fermare. Ogni posto prenotabile è già prenotato. Il mio supporto maggiore, oltre che dare una mano come volontario, è stato quello di creare un reportage, e spero che possa avere un impatto tangibile. Che possa agire sulla coscienza di qualcuno.»
Com'è il clima che si respira tra i rifugiati? Paura di non tornare a casa, paura per i familiari, paura dell’ignoto? Poca fiducia e speranza che tutto questo possa terminare in poco tempo?
«Ho provato a intervistare centinaia di persone, ma moltissimi di loro non volevano parlare. I pochi che ho intervistato mi hanno detto che arrivavano da Kiev dopo sei giorni di viaggio. Se la situazione in Polonia è così problematica, non oso immaginare come sia in Ucraina. Molti evitano di prendere i treni, cercano di spostarsi a piedi o con un passaggio in auto. Ho sentito due ragazzi che erano totalmente rassegnati, costretti a scappare e con la rabbia per tutta questa guerra che a loro non tocca. Sperano di tornare in Ucraina il prima possibile, una volta finita la guerra.»
A Medyka c’è carenza di materiale e di aiuti? Cosa manca o cosa scarseggia?
«Non manca assolutamente nulla. La situazione alla dogana è tranquilla, da quel punto di vista. Cibo e coperte ci sono. Inoltre, al confine ci sono tantissime associazioni no-profit, religiose e non. E poi ci sono le singole persone che vogliono dare una mano. I profughi, nelle ore o nei pochi giorni in cui sostano a Medyka, hanno a disposizione qualsiasi cosa.»
Una volta ritornato a Milano, dopo il tempo trascorso a Medyka, la percezione del conflitto è mutata?
«Certo, la percezione è cambiata, ma non l’ho mai sentita troppo lontana. Ho persone coinvolte direttamente o indirettamente con questa guerra. Ho pensato che se ci sono persone vicine a me che stanno subendo gli effetti di tutto questo conflitto, non posso far finta di niente e probabilmente sono partito spinto da questo sentimento. Non mi piace catalogarmi, ma sono sempre stato contro la guerra, in ogni angolo del mondo. Adesso mi sto rendendo conto che, come tutte le cose, il tema della guerra è meno dibattuto perché non è più la novità. Il problema è che la situazione non sta migliorando. Anzi, è sempre peggio. Gente stuprata, impiccata, brutalità di ogni genere. Ma è così. Una volta raggiunto il culmine, tempestati di notizie a tutte le ore, come per il Covid-19, ti passa la voglia di ascoltare qualsiasi cosa. Ma questo credo che sia rivolto anche a tutti coloro che esprimono la loro opinione senza nessuna qualifica in merito alla geopolitica o ai movimenti militari. Non è il modo adatto per raccontare il conflitto. Così facendo, la gente si allontana e prende meno sul serio la vicenda. Quello che ho provato a fare in Polonia è stato raccontare il conflitto senza filtri. Senza che ci fossi io sullo schermo e con la più alta qualità possibile. Senza che nessuno mi dicesse cosa e come pensare. Cercare di smuovere le persone per far dire loro “che cosa posso fare?”, oppure “che aiuto posso dare?”. Questo è quello che ho provato a fare in quei giorni sul confine ucraino.»
Il cognome può disorientare ma sono nato e cresciuto in Sardegna. Studiare giornalismo ed editoria mi ha portato a Parma per due anni. Leggo, scrivo, esploro. Attualità, società e sport sono la mia calamita principale. Amo avventurarmi in mezzo alla natura e alle montagne nonostante le mie vertigini. Tuttavia, non rinnego la filosofia “Divano e serie tv”.